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LA SINGOLARE SCELTA DELLE NOTIZIE SULL'AMERICA LATINA Gianni Minà
17 Giu 2008

L’informazione dei nostri media sull’America latina e particolarmente su nazioni indigeste agli Stati uniti come Cuba, Venezuela o Bolivia, è stata sempre scorretta e spesso perfino grottesca. Ma ci sono periodi, come quello attuale, di profonda crisi dell’immagine degli Stati uniti e della credibilità dell’Occidente, in cui questo atteggiamento diventa quasi un insulto per l’intelligenza degli stessi lettori. Come si fa a credere ancora in un paese, definito bandiera della democrazia, dove i processi senza prove a presunti terroristi sono cominciati nella base di Guantánamo di fronte a “commissioni militari” e non di fronte a tribunali con giudici e avvocati? Ma l’informazione occidentale ha smesso di porsi questo interrogativo. Scegliamo a caso fra alcune notizie inquietanti degli ultimi mesi, curiosamente ignorate, nascoste o minimizzate dai grandi mezzi d’informazione anche del nostro paese, un paese del G8, dove ogni giorno sottolineiamo di essere democratici.
1] Salvatore Stefio, uno dei quattro contractors italiani rapiti in Iraq il 12 aprile del 2004, sarà processato insieme a un socio, perché accusato dalla Procura di Bari di aver arruolato soldati “non autorizzati a servizio di uno stato estero”. Stefio non avrebbe arruolato Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Fabrizio Quattrocchi [che poi fu barbaramente ucciso] solo per un lavoro come guardaspalle di imprenditori -o presunti tali- che andavano a saccheggiare l’Iraq con la scusa della ricostruzione, ma perché prestassero aiuto a forze armate di altri paesi. Insomma, perché “in territorio iracheno militassero in favore di uno stato straniero” in cambio di un corrispettivo economico. Una storia scabrosa, perché recentemente, proprio dagli Stati uniti, si è saputo che, solo nell’antica terra di Babilonia, questi mercenari sono più di 15mila e operano senza nessun controllo e limite. Di fatto sostituendo nel lavoro sporco [torture, vessazioni di ogni genere alla popolazione, esecuzioni sommarie] l’armata di occupazione Usa.
2] Nella zona circostante il carcere Los Cabitos, nella città di Ayacucho in Perù, è stata scoperta un enorme fossa comune contenente i resti di un migliaio di persone, comprese donne incinte e bambini, vittime dei massacri compiuti da gruppi di paramilitari che, come ha stabilito una recente sentenza, hanno spadroneggiato, fino a pochi anni fa, con la benedizione dell’ex presidente Alberto Fujimori, oggi finalmente sotto processo a Lima per crimini contro l’umanità. Fujimori, divenuto presidente grazie al consistente appoggio degli Stati uniti, è quello che, con la complicità di monsignor Cipriani, esponente dell’Opus Dei e oggi vescovo di Lima, diresse personalmente il massacro del commando del gruppo Tupac Amaru che, per 126 giorni aveva occupato, senza usare alcun tipo di violenza ai sequestrati, la residenza dell’ambasciatore giapponese, chiedendo la liberazione di alcuni compagni rinchiusi in condizioni inumane in carceri di massima sicurezza.
3] Per non meglio precisati “ritardi” nei carteggi tra Italia e Uruguay, è tornato in libertà il capitano di marina e torturatore Nestor Troccoli, arrestato a Salerno il 23 dicembre scorso e detenuto, fino all’inizio di maggio, per la scomparsa di sei cittadini italiani e trenta uruguayani. Era il solo, dei 140 arrestati per i delitti commessi in osservanza del Plán Condor, a essere ancora in prigione.
4] Edgar Millan Gomez, l’alto ufficiale messicano incaricato di coordinare a livello nazionale le operazioni contro i narcotrafficanti, è stato assassinato l’8 maggio a Città del Messico con nove colpi di arma da fuoco. Autore dell’attacco un gruppo armato, ma la polizia ha arrestato, finora, solo un uomo di 34 anni. Dall’inizio del 2008 sono state 1100 le persone uccise nel paese per fatti legati al traffico di stupefacenti. Vale la pena di ricordare che, nella terra degli aztechi, continua anche la mattanza di giornalisti. Una pratica iniziata sotto la presidenza di Vicente Fox, l’”amico di ranch” di George W. Bush e che, in soli sei anni ha superato le 30 vittime, stabilendo un vero e proprio record e facendo passare in secondo piano perfino la tormentata quotidianità della Colombia.
5] A Buenos Aires, dopo le recenti minacce di morte rivolte alla loro storica dirigente Hebe de Bonafini e a sua figlia Alejandra, domenica 11 maggio sono stati devastati gli uffici della casa delle Madres, dove ha sede anche l’Università popolare. Un atto che conferma come i fantasmi del crudele passato dell’Argentina incombano ancora nella vita sociale di quel paese. Ce ne sarebbe abbastanza per una riflessione sullo stato delle cose dopo che gli Stati uniti, distratti dalle guerre in Oriente, hanno perso il controllo di quello che definivano il “cortile di casa”, e magari per una riflessione sulle forze, oscure o palesi, più che mai attive in America latina, che chiaramente non accettano il vento di riscatto e di riappropriazione delle risorse che spira in molte nazioni del continente. E invece no.
La preoccupazione più palese dei nostri media, negli stessi giorni di queste notizie, era che Raúl Castro, riaprendo le porte degli alberghi di lusso ai cubani, non avesse considerato il fatto che, magari, una notte al mitico hotel Nacional de l’Avana costasse a un cittadino medio l’equivalente di dieci stipendi. Come se tutti i francesi, specie quelli delle banlieues, si potessero permettere una suite al Ritz di Parigi, o come se i milioni di esseri umani che in Brasile vivono nelle favelas avessero la consuetudine di passare qualche giorno negli alberghi di Ipanema o di Leblon a Rio de Janeiro. Se è lo stato a vietarti un consumo per assicurarti magari un’assistenza, una tutela, non è accettabile. Ma se te lo nega il mercato invece sì. Quando, negli anni ‘90, crollò il comunismo sovietico e vennero meno i rapporti economici con i paesi del Comecon, Cuba, che [forse è il caso di ricordarlo] è un’isola dei Caraibi e non il Liechtenstein, l’Olanda o la Spagna, puntò tutto sul turismo. Ma, come ha ricordato in questo numero di Latinoamerica Salim Lamrani, non aveva abbastanza strutture per accogliere la massa di turisti che avrebbero assicurato la sopravvivenza al paese, ancora strangolato dall’immorale e antistorico embargo degli Stati uniti. Dare quindi la precedenza ai turisti stranieri, portatori di valuta pregiata, è stata per lungo tempo una scelta obbligata. Ma per cogliere questi aspetti ci vorrebbe un po’ di onestà intellettuale, che per Cuba dalle nostre parti non c’è mai.
Così si preferisce scoprire l’acqua calda segnalando la voglia di consumi di molti giovani, dimenticandosi sistematicamente, per esempio che, nello stesso continente, ci sono 40 milioni di nordamericani che sognano uno straccio di assistenza sanitaria e 60 milioni di brasiliani per i quali il presidente Lula ha dovuto inventare il piano Fame zero, il più grande progetto di assistenza alimentare mai varato al mondo, per assicurare tre pasti al giorno a ognuno di questi indigenti. Questo panorama non impedisce però, per esempio, alla collega Alessandra Coppola del Corriere della Sera, di dolersi per il nascente fenomeno rappresentato da alcuni cubani che lasciano le loro anguste realtà native sognando una realtà migliore a l’Avana, la grande capitale, dove sono già nate piccole baraccopoli. È inutile ricordare che, proprio per quello che abbiamo imputato sempre alla Rivoluzione, la sua chiusura, la sua diffidenza verso gli stili di vita del capitalismo trionfante, Cuba si era finora salvata dal fenomeno dell’urbanizzazione che ha reso un incubo la vita della maggior parte degli abitanti di megalopoli come Città del Messico, Mumbai, San Paolo del Brasile, Buenos Aires o Nairobi, dove un’umanità privata di igiene, istruzione, sanità e di qualunque altra assistenza, dovrebbe, per le logiche dell’economia neoliberale, sopravvivere con meno di un dollaro al giorno. Sempre sul Corriere Claudio Magris si chiede se “il regime avrà la capacità o meno di attuare una reale trasformazione, ossia di gestire il proprio trapasso in una società democratica e liberale”.
Al professore umilmente segnalo che, visti i risultati che la parola “liberale” ha partorito in America latina, mortificando perfino la parola democrazia, è molto difficile che Cuba, malgrado tutte le sue contraddizioni e i suoi problemi, si consegni mani e piedi a questa dottrina politico-economica. E tanto meno i cubani, se li conosco bene dopo più di trent’anni che frequento l’isola, giudicherebbero una vittoria e un merito una “graduale auto-abolizione della Rivoluzione”.
In questi mesi in cui fioccavano le efferatezze che ho prima messo in fila e la grande stampa, imperterrita, come fa da mezzo secolo, continuava, sbagliando le previsioni, a chiedersi dove andasse Cuba dopo Fidel, mi è piaciuta una risposta di Padura Fuentes, uno scrittore spesso critico con la Rivoluzione e per questo molto più intervistato di Senel Paz o di altri: “Cuba cambierà? Dipende dagli Usa”. Perché questa è la realtà. Non a caso Obama è stato l’unico a criticare, anche se con prudenza, l’embargo e ad accennare la possibilità di ridimensionarlo o di cancellarlo. La Cuba di Raúl sta lanciando dei segnali, ma se gli Stati uniti risponderanno con i soliti accenti, la Rivoluzione non aspetterà molto a rivedere alcune aperture fatte. Sempre che la realtà in divenire dell’America latina tesa al raggiungimento dell’unità continentale, non rassicuri Cuba che il tempo di vivere assediata è finito. Ma non sarà facile raggiungere questo risultato. Gli Stati uniti di Bush jr, anche nell’anno appena trascorso, hanno stanziato 140 milioni di dollari per favorire l’agognato “cambio” politico nell’isola, che significa poi il solito funzionario Usa, preferibilmente proveniente dalla Cia, che prepara il terreno per le razzie delle multinazionali e per mettere al governo fidati esecutori delle direttive che arrivano dall’economia Usa.
È comico, specie dopo le aberranti esperienze in Afghanistan, dove sono tornati a comandare i signori della guerra e i trafficanti d’oppio, o in Iraq, dove il conflitto ha superato la durata dell’ultima guerra mondiale, sentire ancora qualcuno che ti chiede perché la rivoluzione cubana non accetti il multipartitismo voluto dagli Stati uniti. Basterebbe riflettere sul summit internazionale dell’ultradestra liberal-liberista, tenutosi a Rosario in Argentina nella settimana dopo Pasqua, per capire che gli Stati uniti non considerano ancora perduta la partita in America latina. Il conclave di ultraliberisti, neo-con, nostalgici delle vecchie logiche degli Usa e dell’Europa coloniale era presieduto dallo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa, scortato da due politici a lui vicini: l’ex premier spagnolo José María Aznar e il governatore dei Buenos Aires Maurizio Macri.
Il rimorso per la sua militanza marxista in gioventù spinge purtroppo Vargas Llosa, un giorno dopo l’altro, a mortificare il suo talento di narratore per l’ostinazione di stare al fianco, e sostenere spesso, i più impresentabili personaggi politici della scena attuale, non solo latinoamericana.
Il seminario di Rosario era finanziato dalla Faes [Fundación para el analisis y los estudios sociales], organicamente legata proprio al Partito popolare di Aznar e mirava a due obiettivi: la riorganizzazione continentale delle forze neoliberiste [incuranti dei dram- matici guasti creati negli ultimi vent’anni], e l’attacco contro quello che definiscono il populismo di molti governi della regione, da Chávez a Morales, da Correa fino a Kirchner, senza fare alcuna distinzione.
I partecipanti erano politici i cui curriculum imbarazzanti parlavano da soli: l’ex sottosegretario Usa per l’America latina Roger Noriega, gli ex presidenti Fox, messicano Cardoso, brasiliano, e poi gli uruguayani Sanguinetti e Lacalle, il boliviano Quiroga, l’ecuadoriano Oavaldo Urtado, il salvadoregno Francisco Flores, tutti reduci da storie politiche perlomeno incresciose.
C’erano pure, come ha sottolineato lo scrittore argentino Miguel Bonasso, vecchi attrezzi dell’anticastrismo. Come Carlos Alberto Montaner [che in gioventù faceva parte, con il presunto poeta invalido Valladares, di gruppi che, a Cuba, praticavano il terrorismo contro la rivoluzione, ndr] e anche rinomati convertiti dell’ultrasinistra latinoamericana come l’ex ministro degli esteri messicano Jorge Castañeda, o l’ex ministro dell’Economia di Pinochet Hernan Buchi. “Il fatto che gli invitati a Rosario siano dei falliti che hanno messo in ginocchio i propri paesi -ha aggiunto Bonasso- non può far sottovalutare la loro pericolosità e la loro volontà sostenuta da mezzi enormi”. Questa realtà ormai la nuova America latina la conosce bene. Salvo il Messico, dove Felipe Calderón è stato eletto con una frode palese, e la Colombia, ormai alla deriva, gli Stati uniti nel continente non hanno più alleati indiscutibili. Nemmeno l’ambiguo Alán García che, a metà maggio a Lima ha ospitato il 5° Vertice euro-latinoamericano, per rilanciare l’”associazione strategica bilaterale”, uno slogan che, a questo punto, non vuol dire niente.
Nel continente è iniziata una stagione nuova, dove due nazioni con presidenti di stili e caratteri diversi, il brasiliano Lula da Silva e il venezuelano Hugo Chávez, ma con un progetto comune, stanno facendo crescere nel continente una nuova speranza. È patetico che l’informazione occidentale, per non dispiacere agli Stati uniti, non se ne sia accorta finora, cocciutamente descrivendo questo contesto in modo folkloristico o sarcastico. Finché i fatti [cioè il continuo aumento del prezzo del petrolio e la recessione incombente per i fallimenti dei sub-prime negli Usa, non hanno costretto, per esempio, il Corriere della Sera a titolare l’apertura di una pagina degli esteri “Brasile, il miracolo di Lula: il malato è diventato ricco”, dove si segnala che questo paese, come il Venezuela, ha estinto il debito estero, ha raddrizzato l’economia e, per certificazione di Standard & Poor’s, è tra i pagatori più affidabili.
Fino a due mesi prima il Magazine del Corriere aveva sarcasticamente sottolineato che Lula, eletto anche dai Sem tierra , non era ancora riuscito a varare una riforma agraria, dimenticando di sottolineare che questo accade perché quell’1% di proprietari che controlla il 47% della terra coltivabile del paese, blocca da 6 anni, con i propri rappresentanti alla Camera e al Senato, ogni possibilità di far uscire, in questo settore, il Brasile dal Medio evo. Traditore, quindi, non era Lula, ma lo erano i vassalli politici dell’economia neoliberale tanto cara ai corsivisti dei media di casa nostra.


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